mercoledì 25 aprile 2018


Alcune classi seconde della Scuola media "Elisa Sala" hanno letto dei brani riguardanti la diversità nello sport ed i  ragazzi hanno elaborato delle interviste su tale tema, anche se non hanno avuto la possibilità di rivolgere le domande formulate  al personaggio sportivo che hanno scelto: si tratta di interviste simulate in cui le risposte sono state scritte dai ragazzi stessi dopo aver effettuato delle ricerche sulla vita e la carriera del personaggio in questione. Buona lettura!



INTERVISTA A BEBE VIO

Nonostante le difficoltà che hai dovuto affrontare, durante il periodo della malattia, una volta guarita hai continuato a praticare la scherma. Che cosa ti ha spinta a farlo?

La scherma è sempre stata la mia passione, fin da quando avevo cinque anni. La meningite non mi avrebbe mai allontanata da questo bellissimo sport.

In tutto questo i tuoi genitori ti hanno sempre sostenuta?

Assolutamente. Il loro sostegno è stato fondamentale. Ricordo bene quando, tornata dall’ospedale, mi faceva male tutto; dissi a mio padre che non avevo più voglia di vivere ma lui mi fermò dicendo: "la vita è una figata"[1]. Da allora ho stretto i denti, decisa a non arrendermi.

Con la tua grinta hai raggiunto traguardi importanti, come l’oro ai giochi paralimpici di Rio de Janeiro nel 2016  e due medaglie, sempre d’oro, ai campionati mondiali nel 2017. Hai lavorato duro per ottenere queste vittorie?

Sì, mi alleno per molte ore al giorno e spesso torno a casa molto stanca. Ma è un tipo di stanchezza che mi rende felice, che mi fa capire di aver lavorato bene.

Ormai sei un esempio per molti che, come te, hanno dovuto superare degli ostacoli a causa di una malattia o di un grave incidente. Che cosa li consiglieresti di fare?

All’ inizio è dura ricominciare a vivere una vita normale fuori dalle stanze dell’ospedale perché sembra che il mondo sia contro di noi ma posso assicurare che non è così. Non bisogna piangersi troppo addosso ma pensare alle cose belle che la vita ci riserva.

Ultimamente hai scritto un libro intitolato:ʺSe sembra impossibile allora si può fare". Cosa ti ha portata a scriverlo?

Volevo trasmettere a tutti l’ importanza di un sogno da perseguire con il massimo impegno, che aiuti a superare anche i momenti più difficili.

Com’è stato condurre un programma tutto tuo?
È stato fantastico, per me è stata un’esperienza completamente nuova che mi ha arricchita perché mi ha permesso di conoscere, e di far conoscere ai telespettatori, le esperienze di vita di tante persone, famose e non, che per un motivo o per l’altro possono essere considerate diverse.

Che cosa pensi della diversità?

La diversità è uno dei valori a cui tengo di più: ci permette di essere noi stessi, senza lasciarci condizionare dai canoni di perfezione che la società odierna impone. Se mi fossi lasciata condizionare, oggi non sarei così felice, ma cercherei di nascondere le mie cicatrici, che invece sono un simbolo della mia vittoria nella lotta contro la malattia.

[1]La risposta è tratta dall’ intervista  fatta da Fabio  Fazio a Bebe Vio nel programma televisivo “ Che tempo che fa” in data 01/10/2018, consultabile online su http://www.raiplay.it




Ilaria M. 2^A






Intervista ad Alex Zanardi


Come hai iniziato la tua carriera?
Sui go- kart, da ragazzo. Ero abbastanza bravo e sono riuscito a vincere tre campionati italiani e ad ottenere un primato europeo.  Ho continuato anche da adulto, in America.

La passione per le corse era già presente nella tua famiglia?

Sì, mio padre era un grande appassionato di motori: fin da quando ero piccolo mi ha sempre parlato dei vari tipi di macchine e delle loro capacità; è stato lui ad introdurmi nel mondo dei piloti professionisti quindi è stato merito suo se ho avuto successo.

Sei sempre stato soddisfatto delle tue prestazioni sportive?

Sì, non mi sono mai lamentato di me stesso e anche oggi, pur non avendo gli arti inferiori, riesco ad inseguire i miei sogni. Non bisogna mai scoraggiarsi facendosi influenzare dagli altri.

Il giorno dell’incidente, sulla griglia di partenza, avevi paura che ti potesse succedere qualcosa?

Sicuramente ero a conoscenza della macchina che guidavo: non era  molto sicura poiché mi aveva già costretto a ritirarmi più di dieci volte in diverse gare ma mi fidavo anche dei suoi costruttori e della loro esperienza. Ero sicuro di me e pensavo che la mia prestazione potesse migliorare solo confrontandomi con gli altri.

Nel momento dell’impatto come hai affrontato la paura della morte?

Mi sono sentito spaesato e inquieto poiché lo scontro fra la mia vettura e quella di Tagliani è avvenuto in un tempo talmente breve che solo all’arrivo dei soccorsi mi sono reso conto che non avevo più le gambe e che la mia macchina era stata tagliata in due parti.

E i tuoi funs, dopo l’accaduto, ti hanno abbandonato o appoggiato?

Devo ammettere che sono stati sempre disponibili e di aiuto. Solo recentemente mi è stato inviato un messaggio sui social che mi denigrava a causa delle mie condizioni di salute ma io ho risposto con coraggio, trattando l’episodio come un gioco.

Secondo te, è più importante il premio o la vita?

Sicuramente la vita è molto importante ma bisogna ammettere che per sopravvivere è necessario il denaro il quale si può ottenere solo grazie a qualcosa che si compie o ad un servizio che si offre. Penso che i soldi siano un mezzo per vivere ma che non debbano prendere il sopravvento ed eliminare ciò per cui esistiamo.

Sei sempre stato sicuro di te durante la fase critica della tua carriera?

Sì, perché ho sempre pensato che fosse necessario sfruttare al massimo le proprie capacità. Penso di essere un esempio da seguire soprattutto per i giovani che, in moltissimi casi, non si rendono conto di distruggere loro stessi fumando o drogandosi.

Perché ti sei orientato nuovamente sulla carriera sportiva, dopo l’incidente?

Volevo dimostrare che anche nel momento in cui sembra di aver per perso tutto si può recuperare se si è capaci di sognare. Non bisogna mai credere di essere dei falliti e bisogna essere sempre pronti a cogliere le opportunità della vita.
Il proverbio dice: ”Impara l’arte e mettila da parte”.

Pensi che sia giusto togliersi la vita solo perché si è disabili?

No, poiché ogni individuo, anche se disabile, ha del potenziale e non deve mai arrendersi[1].

Lorenzo C. classe 2^D



[1] Le risposte non sono inventate ma tratte dalla biografia di  Alex Zanardi pubblicata sul sito: www.biografieonline.com. consultato in data 15/04/2018.


martedì 24 aprile 2018

la resilienza

Che cos'è la resilienza? La nostra alunna Monica lo ha chiesto a Rosanna Bissi, pedagogista, ponendole queste domande:


Che cos’è la resilienza?
La resilienza è una capacità che si possiede per natura oppure si può acquisire?
Quali sono i fattori che rafforzano la resilienza?



Può succedere che una persona non riesca a "rialzarsi", pur essendo stata per un certo tempo resiliente?
Quando le esperienze negative sono giunte al termine, la resilienza ripaga da tutti gli sforzi e le rinunce che quelle esperienze hanno comportato?
 



giovedì 12 aprile 2018

ARRENDERSI? MAI!


Era il primo Natale che trascorrevo senza i miei genitori. 
Avevo solo cinque anni e mi trovavo a casa di nonna Matilde, in compagnia sua e delle sue storie, che non smettevano mai di affascinarmi. Mi raccontava dei suoi giri intorno al mondo: in particolare, quella sera mi parlò del suo viaggio negli Stati Uniti d'America e dell’incontro con Hope Solo, una ragazza che sarebbe diventata un importante portiere del Seattle Reign e della Nazionale statunitense, e che ben presto diventò il mio idolo. Fu proprio dal racconto di quella tenace campionessa che nacque la mia passione per il calcio. Da quel giorno, infatti, mi ritrovai spesso in giardino a giocare a pallone con mio cugino Gabriele, soprannominato il piccolo Lionel, in onore del grande Messi, che mi insegnò le prime basi del calcio.
Fino alla terza media facevo parte della squadra dell'oratorio del mio quartiere, ma ora che sono in prima superiore, mi sono iscritta a quella dell’istituto, la "G.Rossini". Non mi sarei mai aspettata un cambiamento così radicale. Il primo giorno di scuola non andò proprio come avevo immaginato. Alla fine delle lezioni, mentre mi dirigevo verso la segreteria per informarmi degli orari degli allenamenti, vidi una ragazza accerchiata da un gruppo di studenti. Mi avvicinai. Tra loro riconobbi il capitano della squadra di calcio, figlio del celebre calciatore Brando Moretti, che la prendeva in giro, seguito a ruota dai suoi tirapiedi. "EHI, LASCIATELA STARE!" mi intromisi. Il capo, Lupo, sgranò gli occhi, basito nel vedere qualcuno che si metteva contro di lui. Ci fu un imbarazzante minuto di silenzio, che venne interrotto dal suono assordante della campanella. La ragazza mi lanciò uno sguardo di gratitudine. "Sei  molto gentile", mi disse, "comunque io sono Sofia Brambilla"; mi presentai a mia volta "Ciao, io sono Andrea Diamante", e diventammo subito grandi amiche. Al primo allenamento vidi Sofia che mi salutava dagli spalti. Poi scoprii che era lì per fare il tifo per il suo fidanzato, Leo, uno degli attaccanti della squadra.
Appena entrata in campo mi accorsi di avere gli occhi di tutti puntati su di me; ma non feci in tempo a capire se mi lanciassero sguardi amichevoli oppure no, che il mister mi chiamò per presentarmi ai miei nuovi compagni di squadra. "Ragazzi questa è Andrea Diamante", e già qui risuonarono le prime risate, "mi raccomando, siate gentili con lei". Ognuno si recò nella propria posizione: naturalmente io andai in porta. Ero molto emozionata. Ci allenammo sulle tecniche di tiro e di parata. Alla fine dell'ora, uscita dallo spogliatoio, mi ritrovai faccia a faccia con il capitano della squadra, un certo Lupo Moretti, e i suoi amici. "Ah, ecco Diamante o meglio Perlina" disse con un ghigno e gli altri si misero a ridere "Se pensi di potermi sostituire in porta, ti sbagli di grosso: sono sempre stato io il portiere di questa squadra e continuerò ad esserlo. "Preferii non ribattere e me ne andai di corsa.
Avevo già capito che avrei faticato molto per farmi accettare dalla squadra. "Com'è andata oggi?" mi chiese a casa nonna Matilde. "Non molto bene" risposi controvoglia "a calcio si comportano come se non esistessi, e danno la colpa a me per ogni singolo errore". "Ti capisco tesoro e posso dirti solo una cosa: continua ad allenarti, sacrificati e impegnati per raggiungere il tuo obiettivo. Vedrai che i tuoi compagni impareranno ad apprezzarti". Nei giorni seguenti, non fu facile per me presentarmi a tutti gli allenamenti con tantissimi compiti e capitoli da studiare per i test d'ingresso di inizio anno. Ma non mi arresi. D'altronde, lo dice anche il mio cognome: resistente come un diamante.
Un normalissimo mercoledì, dopo aver salutato Sofia alla fine dell'ultima ora, e dopo essere arrivata un po' tardi all'allenamento, sentii una cosa che mi rese felicissima ma molto ansiosa allo stesso tempo. "Ragazzi" annunciò il mister "come sapete, abbiamo due portieri in squadra, uno più valido dell'altro; perciò per stabilire chi sarà il portiere titolare, sabato Andrea e Lupo si sfideranno a calci di rigore e chi ne parerà di più vincerà". Stavo proprio per correre come un razzo a casa per raccontarlo alla nonna, quando il mio cellulare squillò: era Sofia. "Ciao Andrea!" "Ciao Sofia, tutto bene? "Sí …senti sabato c'è la finale dei campionati provinciali di pallavolo e giocheremo noi, le Volpine, contro un'altra squadra molto forte. É una partita fondamentale e ci terrei che tu venissi". Tutto il mio entusiasmo si spense in un attimo. E ora? Come avrei fatto a spiegarle che non sarei andata perché avevo l'allenamento più importante dell'anno, in cui mi sarei sfidata con Lupo? "In realtà, non so ancora se posso … ti faccio sapere!". "Ok, ciao a domani!".
Sperai con tutto il cuore che Sofia mi avrebbe capita e tornai a casa. Quello stesso mercoledì, appena ebbi un po' di tempo libero, corsi a chiamare Gabriele per allenarmi con lui in cortile: lui tirava, io paravo. O almeno ci provavo. Dopo diversi tentativi, notai i primi miglioramenti; paravo sette tiri su dieci!! Mi sentivo più fiduciosa "Chissà, magari batterò davvero Lupo" pensai. Mio cugino mi incoraggiava dicendomi che avrei vinto sicuramente: "Sei molto più agile e veloce di quella saracinesca!" mi disse. Continuai ad allenarmi duramente anche nei giorni successivi.
Poi arrivò sabato, un giorno pieno di emozioni. Avevo deciso di mandare un messaggio a Sofia per avvisarla che non sarei andata alla sua partita, non me la sentivo proprio di chiamarla, avevo paura di aver tradito la nostra amicizia. Però, mi dissi, se è una vera amica capirà.
La mattina a scuola ero distratta, con la testa già in campo, ricevetti non pochi richiami dai professori che non capivano cosa mi fosse preso. Apprezzai, più di quanto avessi mai fatto, il suono dell'ultima campanella. Per evitare di arrivare in ritardo, corsi per tutto il tratto dalla scuola al campo e, giunta con cinque minuti di anticipo, iniziai a scaldarmi sul prato. Naturalmente, Lupo non si lasciò sfuggire questa occasione e in un attimo fu da me. "Senti, Perlina, siccome sappiamo entrambi chi vincerà oggi, se non l'hai capito sto parlando di me, questa è l'ultima possibilità che hai per ritirarti e non essere umiliata" mi disse con tono arrogante. "No!" risposi decisa, senza neanche pensarci, "hai solo paura di perdere!". "Ah sì? Beh, staremo a vedere!" Ci posizionammo in porta e, al fischio dell'allenatore, la sfida ebbe inizio. Leo si preparò a tirare il primo rigore. Toccava a Lupo. Parò il primo tiro. Lo stesso fu per me. Procedemmo così fino al quarto: eravamo pari. Tutto dipendeva dall'ultimo rigore.
Leo tirò. Vidi le mani di Lupo sfiorare il pallone, ma non fece in tempo ad afferrarlo, che si abbatté contro la rete. Non l'aveva parato! Poi toccò a me. Se fossi riuscita a difendere la porta, sarei diventata portiere titolare della squadra. Leo tirò un’ultima volta. Senza quasi rendermene conto, mi ritrovai miracolosamente la palla stretta fra le mani. Non ci credevo neanche io. Ce l'avevo fatta!!
Dopo un primo momento di stupore generale, vidi Lupo andarsene via arrabbiato. Il lunedì seguente, a scuola, decisi di andare da lui per parlargli. Con mia grande sorpresa, quando mi avvicinai, mi disse una cosa che non mi sarei mai aspettata: "Perlina, in fondo non sei così male e forse meriti il ruolo di portiere. In ogni caso, avrei comunque dovuto abbandonare la squadra per non essere bocciato anche quest'anno". Mi rivolse un sorriso ironico e si allontanò. Capii che forse sarebbe stato l'inizio di una grande amicizia.
Così eccomi qui, portiere titolare della squadra. Io e Sofia ci siamo rappacificate: non potevamo rimanere separate a lungo, lei ha capito quanto fosse importante per me quell'allenamento, per cui avevo tanto faticato, e io ne sono stata contenta. Da quel giorno il mio motto è diventato: mai arrendersi!! Bisogna sempre lottare per raggiungere i propri obiettivi anche quando sembrano inarrivabili.

SCUOLA MEDIA "ELISA SALA" CLASSE 2^A


Era il primo Natale che trascorrevo senza i miei genitori. Avevo solo cinque anni e mi

Una squadra dentro e fuori dal campo



«Lo speaker parlava da centrocampo. Alle mie spalle la coppa emanava un luccichio che faceva a gara con i flash delle macchine fotografiche. Ed è con sommo piacere che mi accingo alla premiazione, stava dicendo al microfono, signore e signori con 75 mete e 80 calci piazzati tutti realizzati, i vincitori del campionato di Rugby Under 12 sono… i ragazzi del Vallesecca Rugby Club.
Il nostro nome, ha detto il nostro nome, ecco la coppa ed ecco i miei compagni che mi abbracciano...sì insomma..mi prendono per il braccio, anzi, mi strattonano....e in sottofondo una voce. Non è quella dello speaker.
Francesca, Francesca, svegliati, sono quasi le otto, arriverai tardi a scuola. Era la mamma che mi tirava per un braccio per cercare di buttarmi giù dal letto. Altro che vincitori del campionato. Era un sogno. Un bellissimo sogno.»
Francesca da qualche giorno non faceva altro che pensare a quella partita, l’ultima, e a dove poterla disputare, visto che il campo quel sabato pomeriggio non sarebbe stato disponibile.
Chi l’avrebbe mai detto? La squadra under 12 del Vallesecca Rugby, un quartiere soffocato da alti e grigi palazzoni, alla periferia di una metropoli, era arrivata in finale. La squadra era composta da ragazzi del quartiere, qualcuno compagno di classe, tutti compagni di oratorio. Erano solo maschi, tranne lei, Francesca, una biondina con gli occhi verdi e il naso spruzzato di lentiggini.
Quattro anni prima, quando Francesca era tornata dal mare con sottobraccio la palla ovale, qualcuno l’aveva guardata un po’ perplesso, altri l’avevano presa in giro. Non era da tutti essere una femmina e voler giocare a rugby. «Sarai sempre sporca di fango e con il naso rotto!» le aveva detto Bea, reginetta di danza classica. Lei non aveva battuto ciglio. Con i suoi amici più fidati, Mattia Cervo e Gianluca Frassati, aveva cominciato a giocare a rugby nel campetto dell’oratorio, dietro la chiesa di San Michele. Don Tarcisio era contento di vedere che quel gruppetto, che trascorreva i pomeriggi a passarsi la palla,  continuava a crescere, giorno dopo giorno. Fino a che un giovane fresco fresco di laurea in Scienze Motorie un pomeriggio si era presentato al campetto chiedendo: «Avete bisogno di un allenatore?» Non avrebbero potuto trovare di meglio. Cristiano era giovane, entusiasta, sapeva dirigere una squadra di giovanissimi giocatori, ma soprattutto era riuscito a creare un gruppo affiatato. In una parola: una squadra. Dopo tre anni di campionati giocati e persi, era arrivata la loro occasione. Dopo aver battuto in semifinale il Brixia Rugby, avversario agguerrito e super favorito del campionato, ora non restava che giocarsi tutta la stagione nella finale contro la Calvina Sport.
Don Tarcisio però aveva allargato le braccia e scosso la testa: «Ragazzi niente da fare, sabato prossimo alla chiesa di San Michele si celebra un matrimonio, non posso darvi il campetto per giocare a Rugby». Dispiaciuto, era dispiaciuto, ma lui mai avrebbe immaginato che i ragazzi avrebbero potuto arrivare a giocarsi la finale e così qualche mese prima aveva fissato per quella data le nozze di Clara e Stefano, due giovani del posto che avevano allestito anche un piccolo rinfresco proprio nel campetto. La cerimonia si sarebbe celebrata alle 16.30, figurarsi se alla stessa ora poteva ritrovarsi con l’oratorio invaso da giovani rugbisti e gli spalti pieni di genitori.
Inutili tutti i tentativi di Francesca e dei suoi compagni di squadra. Don Tarcisio era stato perentorio: «Ragazzi la partita qui non si può giocare».
L’allenatore li aveva convocati: «Ragazzi, il rugby ci ha insegnato il rispetto, la disciplina e la capacità di soffrire. Questo sport allena alla vita e non possiamo rinunciare senza lottare!».
Mattia, riccioli neri e occhi vispi, aveva buttato lì una soluzione: «Chiediamo agli avversari di ospitarci». La possibilità però non convinceva nessuno. «Così facendo ci sentiremmo da subito in inferiorità», aveva detto Leonardo, e tutti erano stati d’accordo.
Non restava che una chance: chiedere a quel taccagno di “Voldemort” di poter utilizzare il campo del suo centro sportivo “Exclusive” che, come recitava il volantino, era “un club con approccio al benessere olistico, completo di Spa e green  per il relax”. Nessuno aveva mai osato calpestare l’erba del suo green con scarpe da calcio e men che meno da rugby. Nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di chiederglielo, se non in una situazione di emergenza assoluta. «E questa è emergenza assoluta», avevano detto Francesca e Gianluca. Bisognava farsi coraggio e andarglielo a chiedere. Il soprannome di Voldemort gli era stato dato dai ragazzi del quartiere che i film di Harry Potter se li erano visti tutti. Il signor Franco De’ Lanfranchi (questo era il suo vero nome) era un uomo solitario che come Voldemort amava vestire di nero e che, come lui, aveva uno sguardo capace di trafiggerti. Anni fa aveva ereditato un grande terreno alla periferia della città e lì aveva deciso di investire in un centro sportivo: piscine, campi da tennis, zone relax e una distesa immensa di verde. Un centro esclusivo, come recitava il nome, frequentato dalla ricca borghesia cittadina.
Quando Francesca e tutti i ragazzi della Vallesecca Rugby si erano presentati alla reception chiedendo di poter conferire con il signor de’ Lanfranchi, le segretarie si erano subito messe in allarme. Eppure Voldemort si era presentato senza farli attendere neppure troppo: dolcevita nero, pantaloni neri, caschetto nero. Alla richiesta di poter usufruire del campo per il pomeriggio di sabato aveva risposto con un sorrisino lugubre: «Ragazzi, ragazzi il sabato qua costa parecchio. Siete sicuri di riuscire a pagare 1.500 euro?». «Millecinquecentoeuro????? » esclamano in coro. Ma era una cifra da far paura. Nessun mercatino di giochi e libri usati avrebbe potuto fruttare così tanto. Eppure una soluzione c’era.
«Ragazzi dobbiamo dire a Voldemort che siamo disposti a lavorare per il suo centro nei prossimi mesi estivi,» spiegava Francesca ai suoi compagni, « adesso la scuola sta per finire. Faremo i turni, sistemeremo il giardino, terremo in ordine la piscina». «Io posso anche mettermi al bar a vendere gelati» diceva Alessio. «Io invece posso rastrellare il prato e fare dei piccoli lavori di giardinaggio», continuava Leonardo. Ognuno avrebbe avuto un ruolo. Come nella squadra.
Non c’era voluto molto a convincere Voldemort. Lui apprezzava la gente capace di darsi da fare. In mezzo a tutti quei prati non era stato difficile allestire un campo da rugby. Ed ecco il giorno tanto atteso. Sabato pomeriggio: Vallesecca contro Calvina Sport. La partita inizia, ma sin dalle prime battute è dominata dagli ospiti che vanno in meta due volte nei primi 15 minuti. «Ragazzi, se dobbiamo lavorare tutta estate, facciamolo almeno per qualcosa per cui ne sia valsa la pena», incita Francesca. Ed è un attimo. La palla sembra stregata tra le loro mani, che una dopo l’altra mettono a segno quattro mete consecutive. Per la prima volta una squadra di quartiere vince l’ambito titolo di campione under 12 Rugby.  L’allenatore esulta. In campo c’è anche don Tarcisio che, appena finito di celebrare il matrimonio, è corso a vedere i suoi ragazzi. Ci sono mamme e papà entusiasti ed emozionati per una vittoria così sofferta e meritata. E, difficile a credersi, c’è anche Franco De’ Lanfranchi. «Ragazzi, allora come d’accordo questa estate vi aspetto  nel mio club», dice alla squadra, «ma solo perchè vi possiate allenare. Questo prato è così grande che un campo da rugby ci sta proprio bene. E mi raccomando usate sempre la vostra arma vincente: Il gioco di squadra dentro e fuori dal campo».
Il Vallesecca ha vinto la finale di campionato! L’ha vinta, anche se non aveva un proprio campo su cui giocare. L’ha vinta perchè ha giocato insieme e con passione, anche se in alcuni momenti è stato difficile continuare. Perchè, non solo in una squadra ma anche nella vita, bisogna essere capaci di affrontare i momenti difficili con le persone a cui vogliamo più bene.
Scuola media "Elisa Sala" classe 2^D.

lunedì 9 aprile 2018

Intervista a Riccardo Montolivo

Riccardo Montolivo, centrocampista del Milan e della Nazionale Italiana, è venuto a trovarci al Centro Maria Letizia Verga: i nostri ragazzi hanno potuto intervistarlo su alcuni temi che riguardano lo sport (e non solo!). Ecco i video delle interviste!

A cura di Gianmaria e Simona